La Storia della ricerca sul fumo e il cancro del polmone nel ‘900 è ricca: la ricerca ha fatto molto per svelare e spiegare l’epidemia di cancro del polmone, e da quella sfida è uscita cambiata e irrobustita

Questa storia illumina il percorso che la scienza ha seguito per aprire all’umanità una strada per attraversare l’incertezza. In essa compaiono alcuni dei giganti che hanno costruito la metodologia dell’epidemiologia moderna: Richard Doll , Ronald Fisher, Cornfield, Berkson, Lilinfield, Hammond, Mantel disputano e mettono alla prova la tenuta logica dei metodi che intanto si sviluppano e si affinano: ne scaturirà un’epidemiologia arricchita, pronta per affrontare la sfida delle malattie croniche.

Quella che segue è un’ampia sintesi dell’articolo originale scritto dal Professor Colin White, un eminente biostatistico che è stato direttore del Dipartimento di Epidemiologia e Sanità Pubblica dell’Università di Yale negli Stati Uniti.

La Frequenza di cancro del polmone è davvero aumentata nel 1900?
Studi restrospettivi
Studi prospettici
La Controversia si riaccende
Comincia la letteratura sull’epidemiologia delle Malattie Croniche
Effetto degli Studi Epidemiologici sul Cancro del Polmone
Riferimenti essenziali

La Frequenza di cancro del polmone è davvero aumentata nel 1900?

Il tumore del polmone era estremamente raro prima del 20° secolo: era stato individuato solo nel secolo precedente da GB Morgagni e quando, nel 1914, Isaac Adler effettuò la sua prima revisione, ne erano stati descritti meno di 400 casi nella letteratura medica. Negli anni ’30 del ‘900, erano state accumulate statistiche sulla mortalità per causa, rapporti di autopsie e osservazioni ciniche che indicavano un aumento dell’incidenza del cancro del polmone tra i maschi. Questa idea stimolò la ricerca di una causa plausibile: un repentino aumento faceva ipotizzare l’esistenza di un fattore ambientale, e i principali indiziati furono ‘uso del tabacco, l’esposizione a sostanze inquinanti dagli scarichi delle automobili, l’inquinamento industriale, il fumo degli incendi domestici e i catrami usati nella costruzione di strade.

Mancata diagnosi?
Mentre la speculazione su questi fattori continuava, l’esistenza dell’aumento di cancro ai polmoni fu messa in discussione: poteva trattarsi di un artefatto, un aumento solo apparente frutto di un miglioramento della diagnostica o di una maggiore longevità della popolazione.
Il Medical Research Council della Gran Bretagna, nel suo rapporto sugli anni 1948-50, attirò l’attenzione sul grande aumento del tasso di mortalità per cancro al polmone negli ultimi 25 anni, ma ammise: “l’aumento può, naturalmente, essere solo apparente”. La conclusione fu che era ragionevole presumere che l’aumento fosse, almeno in parte, reale.
Intanto, un’indicazione che l’idea dell’aumento reale stesse affermandosi è il fatto che nei primi anni ’50, due studiosi del cancro: Paul Steiner, patologo dell’Università di Chicago e Clemmesen, direttore del registro tumori danese, cambiarono l’opinione, espressa in precedenza, che l’aumento segnalato fosse solo un artefatto. Anche i commenti sul British Medical Journal di allora mostrano un cambiamento: nel 1948, un lettore, senza produrre prove, affermava in una lettera che la frequenza del cancro del polmone era aumentata e un editoriale del 1950, evidenziava che mentre nel 1920, in Gran Bretagna, solo l’1,5% delle morti per cancro negli uomini era dovuto al cancro del polmone, la percentuale era arrivata al 19,7% nel 1947. L’editoriale segnalava che anche negli Stati Uniti, in Australia, in Svizzera e in Danimarca c’erano stati aumenti simili.
Nel 1952, Lancet riportò un resoconto dei tassi di mortalità, “Poche tendenze sono più drammatiche dell’ascesa del tasso di mortalità per cancro del polmone degli ultimi 30 anni. Non c’è dubbio che l’aumento sia reale e numericamente importante”.

Il tasso di incidenza del cancro del polmone, secondo i registri tumori di popolazione, era aumentato ancora negli anni Cinquanta rispetto agli anni Quaranta, quando era stato più elevato di quello degli anni Trenta. Questo continuo aumento rese il fenomeno evidente per la maggior parte degli osservatori. Clemmesen scrisse nel 1954 che: se, nel 1930, l’aumento poteva anche essere messo in dubbio, “la malattia, ora, sta aumentando su scala pandemica”. La rapidità dell’aumento è illustrata dai tassi di incidenza annuali, aggiustati per età, per mille maschi, registrati in Connecticut: passando da un quinquennio a quello successivo, gli incrementi percentuali sono pari al 34%, 58% e 51%. Le modifiche registrate nel Connecticut e altrove erano troppo rilevanti per essere ragionevolmente spiegate dal fatto che nel passato, il tumore del polmone fosse stato sotto-diagnosticato.

Miglioramenti diagnostici?
Nel periodo tra la fine degli anni Quaranta e Cinquanta, i medici avevano a disposizione la broncoscopia e gli antibiotici da usare in persone con polmonite per scoprire una neoplasia, per cui i dati dei registri tumori di popolazione erano di migliore qualità: ad esempio nel registro del Connecticut, la percentuale di nuovi casi con diagnosi di cancro del polmone confermata dall’esame istologico, nei maschi, aumentò da 45% a 68% mentre quella i casi registrati solo in base al certificato di morte si dimezzarono.
Nel 1976, Philip Burch, dell’Università di Leeds ipotizzò che l’epidemia di cancro del polmone potesse in parte essere spiegata dal fatto che, nella prima parte del secolo, ci fosse stata una sistematica sotto-diagnosi, mentre in seguito l’attenzione e capacità diagnostiche sarebbero migliorate. Tuttavia, sebbene probabilmente corretta, questa ipotesi non poteva spiegare completamente l’aumento che era stato riscontrato. Nel 1976, solo l’1% dei casi di tumori del polmone riportati al Registro Tumori del Connecticut, si basava unicamente sul certificato di morte (e solo il 12% mancava di conferma istologica), eppure il tasso di incidenza continuava ad aumentare. Questi fatti contraddicono l’ipotesi secondo cui l’aumento del cancro del polmone in questo periodo era dovuto ai falsi-positivi.
Nel 1954, un gruppo di produttori di sigarette negli Stati Uniti rilasciarono una dichiarazione in cui riconoscevano “l’aumentata incidenza di cancro ai polmoni negli ultimi anni”, ma negavano che ci fosse prova che il fumo ne fosse responsabile.

Motivi dell’incertezza
Una buona ragione per spiegare l’incertezza relativa all’aumento del cancro ai polmoni nella prima metà del secolo, è che i dati venivano ottenuti con diversi metodi di studio. Da un lato, i patologi, consapevoli del lavoro dettagliato necessario per stabilire la probabile causa del decesso, diffidavano delle statistiche di mortalità basate sui certificati. D’altra parte, statistici ed epidemiologi, consapevoli del fatto che i deceduti sottoposti ad autopsia sono casi molto selezionati, sottolineavano che i dati autoptici avrebbero potuto fornire solo un quadro distorto della realtà. La polemica, in questioni scientifiche, tende a essere vivace quando i partecipanti provengono da diverse discipline, ciascuna con i propri canoni di evidenza.


Studi retrospettivi
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Nel 1954, Clemmesen che dirigeva il Registro Tumori Danese affermò categoricamente che l’aumento era dovuto alla dipendenza dal fumo che si era diffusa notevolmente durante la prima metà del secolo. In precedenza, raramente i fumatori fumavano sigarette: dal 1900 al 1960, negli USA, il numero di sigarette commercializzate, per persona all’anno, era aumentato da 50 a 3.900.
Doll ha notato che già molto prima del 1950 si era sospettato che il fumo poteva causare malattie, ma fino ad allora non era ancora disponibile una quantità di dati sufficientemente rappresentativi, da far credere che il fumo poteva essere effettivamente causa di una malattia. Almeno sette piccoli studi, in cui era stata trovata un’associazione tra fumo e cancro ai polmoni, erano stati eseguiti prima o durante il 1950, il primo di Muller su 86 casi e 86 controlli addirittura nel 1939. E, sulla base delle impressioni cliniche, Ochsner e DeBakey già nel 1941 avevano espresso “la chiara convinzione che l’aumento del carcinoma polmonare è dovuto in gran parte all’aumento del fumo, in particolare del fumo di sigaretta”.

Due studi caso-controllo ben progettati
Nel 1950, furono effettuati due studi caso-controllo, entrambi di grandi dimensioni, ed anche ben condotti, il primo di Wynder e Graham negli Stati Uniti e il secondo di Doll e Hill in Inghilterra. Nel 1950, i metodi caso controllo non erano nuovi in epidemiologia, anche per studiare il fumo, ad esempio nel 1928 Lombard e Doering ne avevano condotto uno. Tuttavia, lo studio di Doll e Hill del 1950 stabilì standard di qualità più elevati, sia nella progettazione che nell’analisi: erano presi in considerazione vari fattori potenzialmente rilevanti: età, sesso, residenza urbana o rurale e classe sociale del soggetto; storia professionale; esposizione agli inquinanti atmosferici; tipo di riscaldamento domestico; luogo dell’intervista; pregiudizio dell’intervistatore; bias diagnostico; e storia di fumo, incluso età di inizio ed età di cessazione, quantità di fumo prima dell’inizio della malattia, principali cambiamenti nell’anamnesi tabagica, massima quantità fumata, pratica per quanto riguarda l’aspirazione del fumo e tipo di prodotto usato.
Essi presero in considerazione varie possibili spiegazioni dei risultati, ricercando possibili cause di confondimento. Il British Medical Journal recensì favorevolmente l’articolo, affermando che era meticoloso e comportava gravi implicazioni. Il lavoro di Doll e Hill è stato descritto a ragione come il prototipo dello studio caso-controllo.

Associazione puramente indiziaria?
C’erano molti che mettevano in dubbio le prove che erano state prodotte contro il tabacco. In una lettera al Lancet nel 1951 era scritto: “L’evidenza è puramente indiziaria, ottenuta con una valutazione statistica del materiale clinico”. Un’altra sul British Medical Journal nel 1952, “L’unico cancerogeno conosciuto nelle sigarette è l’arsenico. Per spiegare l’aumento del cancro broncogenico, deve essere ricercata qualche causa diversa dall’aumento del consumo di sigarette, o in aggiunta ad essa”. Questa importante critica fu ripresa sempre sul British Medical Journal nel 1953: “Non sono state trovate sostanze cancerogene nel fumo di tabacco, sebbene la loro presenza sia implicita”. Ancora sul British Medical Journal nel 1953 si sollevarono obiezioni contro l’ipotesi del tabacco: “il fatto che i non fumatori contraggano la malattia dimostra che il fumo può al massimo essere un fattore aggravante, non la causa fondamentale del carcinoma broncogeno”  e “non c’è stato alcun aumento dell’incidenza di cancro della bocca, della lingua o del faringe”.
Altri critici ammisero che poteva esistere un’associazione tra fumo e cancro ai polmoni, ma non consideravano la connessione causale. Nel 1953, il Ministro della Sanità dichiarò al Parlamento britannico: “Il Comitato consultivo permanente sul cancro e la radiologia e il Consiglio per la ricerca medica mi hanno entrambi informato che la relazione [tra il fumo e il cancro del polmone] non è necessariamente causale”, e nello stesso anno un documento sul fumo e il cancro ai polmoni concludeva: “Esiste un’associazione, ma la domanda se il fumo causa il cancro resta ancora aperta”.

La posizione dell’industria
Seguirono molti studi caso-controllo essenzialmente ripetitivi sul fumo e sul cancro ai polmoni. Era inquietante dover constatare che un’abitudine considerata piacevole e popolare poteva essere, a lungo termine, letale. E non fu facile convincersene. Il tabacco, era sufficientemente importante, dal punto di vista economico, da potersi garantire una difesa adeguata alla sfida. Nel 1954, l’American Tobacco Industry emise una dichiarazione che esprimeva fiducia: “[l’industria] assume l’interesse per la salute delle persone come una responsabilità preminente rispetto ad ogni altra considerazione di business, ma non crede che i prodotti del tabacco siano dannosi per la salute”.

Critiche di Hammond
Un’importante critica alla scoperta dell’associazione tra fumo e cancro del polmone, incentrata sull’uso del metodo caso-controllo, fu espressa con forza, nel 1954, da Hammond, convinto per altro che l’aumento dell’incidenza del cancro del polmone fosse reale, e che il problema che ne derivava fosse serio. Hammond in quel momento stava conducendo, con Horn, uno studio che in seguito avrebbe svolto un ruolo importante nel concludere che il fumo delle sigarette rappresenta il principale fattore eziologico. L’unica virtù che egli riconosceva al metodo caso-controllo era che, in condizioni favorevoli, era rapido ed economico, tuttavia Hammond metteva in risalto la difficoltà di ottenere controlli appropriati, e la possibilità che un ricercatore, convinto della nocività del tabacco, avrebbe potuto influenzare la risposta dei casi alle domande riguardanti la sua storia di fumatore. Inoltre, Hammond tirò in ballo quello che è poi diventato noto come bias di Berkson, derivante dal fatto che la popolazione ospedaliera, utilizzata per stimare associazioni che si applicano nella comunità, non è rappresentativa della popolazione generale. A causa dei limiti del metodo caso-controllo, sosteneva Hammond: molti critici “ritengono che esso porti a conclusioni errate”. Trent’anni più tardi, Doll avrebbe annotato che: per molti il pregiudizio era “in quel momento inerente al metodo caso-controllo”.

Studi prospettici
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Le critiche metodologiche sono state, in parte, soddisfatte dalla pianificazione di studi in cui, al momento dell’arruolamento dei soggetti, l’esito di salute era sconosciuto: i gruppi di soggetti sotto osservazione erano fumatori e non fumatori, invece che casi di cancro ai polmoni e controlli sani o affetti da malattie non correlate col fumo, come avviene negli studi caso-controllo. Questo disegno è diventato noto come disegno di coorte prospettico. Il termine “coorte” è usato in demografia per indicare un gruppo di persone che hanno tutti vissuto qualche evento in un determinato periodo di calendario, ad esempio una coorte di nascita o una coorte di matrimonio. Nel caso dello studio di coorte sul carcinoma polmonare, ciò che definisce la coorte è l’esposizione al fumo di sigarette (coorte degli esposti e coorte dei non esposti). Siccome in questo caso l’inizio dell’esposizione può variare nel tempo di calendario anche all’interno dello stesso gruppo di età, la parola “coorte” assume, in questo uso epidemiologico, un significato esteso.
L’uso del disegno di coorte per studiare le cause di malattie non infettive è un progresso di cui dobbiamo essere grati alla ricerca sul fumo. Studi di coorte di altri tipi erano stati a lungo usati. Per esempio, negli anni Trenta, Wade Hampton Frost aveva adattato il metodo delle life table per studiare l’epidemiologia della tubercolosi. Doll scrisse nel 1964: “il metodo prospettico di indagine è estremamente semplice”, ma le difficoltà pratiche nell’applicare il metodo nel caso dei problemi provocati dal fumo erano considerevoli.
Cornfield, che era un esperto sia nella ricerca sul fumo che nella progettazione di studi epidemiologici, aveva scritto nel 1951: “Un tipo d’indagine che comporta la selezione di gruppi rappresentativi di coloro che hanno, e [altri] che non hanno una caratteristica, è costoso e richiede tempo. … ed è usato raramente”. Ma, all’inizio degli anni cinquanta, questi problemi furono superati da Doll e Hill e da Hammond e Horn nelle loro ricerche sul fumo.

Gli studi di coorte applicati all’eziologia di malattie croniche
All’incirca nello stesso periodo, Case aveva descritto uno studio di coorte in cui la coorte era stata identificata ad un certo punto nel passato, quindi seguita (retrospettivamente) fino al tempo presente per mezzo di documenti clinici disponibili, e dal momento presente in poi seguita ancora prospetticamente, per un periodo durante il quale si verificò la maggior parte degli esiti. Questa procedura viene chiamata: studio di coorte storica. La ricerca di Case e colleghi sulla esposizione a coloranti e cancro della vescica fu pubblicata nel 1954, lo stesso anno dello studio di coorte Doll e Hill, e i due studi sono diventati, insieme, il punto di riferimento nello sviluppo dell’epidemiologia dei tumori e dell’epidemiologia delle malattie croniche, in generale. Ciò che è nuovo nell’uso di questo metodo è l’applicazione allo studio dell’eziologia di una malattia non infettiva. Seguendo l’esempio, studi di coorte simili su scala più piccola sono diventati comuni.
Non si è tanto propensi a intraprendere uno studio di coorte, di per sé, lungo e costoso quando non esiste un legame naturale tra fattore di rischio e patologia. Ma, nel caso del fumo e cancro del polmone, i risultati degli studi caso-controllo non avevano convinto alcuni critici per cui era evidente il valore di un metodo di indagine prospettico.

I primi due studi di coorte sugli effetti del fumo iniziarono subito dopo la conclusione delle indagini caso-controllo. Doll e Hill inviarono questionari ai medici britannici nell’ottobre del 1951 e ottennero 40.000 risposte utilizzabili. All’inizio del 1952, Hammond e Horn, dell’American Cancer Society, iniziarono a intervistare 188.000 maschi bianchi, tutti nella fascia d’età compresa tra 50 e 69 anni. Nello stesso decennio, quattro altre grandi coorti furono arruolate in studi simili. Ciò che è interessante è la concordanza nei risultati degli studi di coorte e tra questi e i precedenti studi caso-controllo.

Gli studi di coorte hanno verificato l’associazione tra fumo e cancro ai polmoni e hanno anche scoperto che il tasso di mortalità per cancro al polmone era sostanzialmente più alto nei fumatori di sigarette rispetto ai fumatori che usavano pipe o sigari; che la forza dell’associazione tra il fumo e il cancro ai polmoni aumentava con la quantità di fumo assorbito; che l’associazione differiva in base al tipo istologico di tumore; e che coloro che smettevano di fumare avevano un tasso di mortalità inferiore a quello di soggetti che continuavano a fumare. Un’importante scoperta aggiuntiva, possibile negli studi di coorte che possono monitorare diversi tipi di esito, cioè diverse malattie, fu che il fumo di sigaretta è un fattore di rischio anche per la malattia coronarica.

Qualcosa non torna nello studio Framingham
Può essere utile sapere che il celebre studio longitudinale di Framingham che, nel 1950, era diventato uno strumento per lo studio dei fattori di rischio delle malattie cardiovascolari, non era giunto allo stesso risultato. Hammond e Horn, Doll e Hill, avevano trovato un’associazione tra fumo e malattie cardiovascolari, ma nello studio di Framingham “le abitudini al fumo non erano associate, in modo particolare, con l’incidenza di cardiopatie arteriosclerotiche”. Nel Framingham study però l’angina pectoris era considerata insieme alle forme fatali di malattia studiate da Hammond e Horn. Nel 1959, fu eseguita un’ulteriore analisi dei dati di Framingham, in cui l’angina pectoris venne trattata separatamente, e si trovò una debole associazione positiva con il fumo. Nel 1962, i dati di Framingham furono uniti a quelli di uno studio simile di Albany, e fu evidenziato che i forti fumatori avevano un rischio di malattia cardiovascolare che era tre volte quello dei non fumatori. È probabile che, al momento delle prime analisi, gli anni-persona di esposizione al fumo, nello studio Framingham, fossero troppo pochi per evidenziare l’associazione tra fumo e malattie cardiovascolari. Hammond e Horn hanno avuto il merito di aver dimostrato, in modo convincente, che il fumo di sigaretta è un fattore di rischio per la malattia coronarica.

La Controversia si riaccende
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Un terzo studio di coorte sul fumo, basato sui veterani degli Stati Uniti, fu pubblicato nel 1959. Gli anni cinquanta e primi anni sessanta possono essere considerati il ​​periodo in cui i dati epidemiologici a favore del ruolo eziologico del tabacco nel cancro del polmone sono stati convalidati e l’opinione contro il fumo ha cominciato a consolidarsi. Nel 1957, il Medical Research Council in Gran Bretagna rilasciò una dichiarazione in cui affermava con forza che l’insorgenza della maggior parte dei casi di cancro ai polmoni era associata all’uso del tabacco, assunto in particolare sotto forma di sigarette, e l’interpretazione più ragionevole era che il tabacco era la causa diretta del cancro.
Anche il Surgeon General degli Stati Uniti prese una posizione simile: “Le prove puntano sempre più nella stessa direzione: l’eccesso di fumo è uno dei fattori causali del cancro del polmone”. I risultati definitivi dello studio di coorte di Doll e Hill e dello studio Hammond-Horn erano in quel momento disponibili. Questi documenti e la discussione che hanno stimolato hanno contribuito a innescare un nuovo periodo di polemiche che sarebbe durato per almeno un altro decennio.

Non tutti sono d’accordo
Dopo la pubblicazione della dichiarazione del Medical Research Council in Gran Bretagna, nel 1957, fu posta al Ministro della salute, la seguente interrogazione parlamentare: “Non ci sono motivi validi per pensare che il Medical Research Council si sia spinto troppo oltre?” Il Ministro rispose “I fatti sono chiaramente noti. Il caso è stato pienamente stabilito”. Per lui, le prove contro le sigarette nel 1957 erano sufficienti e difficili da contraddire.
Nello stesso anno, Compton Mackenzie, un vulcanico e noto scrittore, pubblicò il libro: Sublime Tobacco, dichiarando di averlo scritto “come segno di gratitudine per l’immenso beneficio che ho ricevuto dal tabacco, e nella completa certezza che non ne ho tratto il minimo danno”. Un revisore di Lancet elogiò lo stile grazioso ed elegante, ma sostenne anche che il libro era pericoloso, forse immorale.
Nel 1956, il British Medical Journal pubblicò le risposte fornite da Doll e Hill a 31 domande sul fumo e il cancro ai polmoni che il giornale aveva sottoposto loro. Questa operazione fornisce un’indicazione dell’interesse suscitato dal tema tra i lettori: non tutto era filato liscio se furono individuati tanti aspetti su cui i medici avrebbero voluto richiedere informazioni o rassicurazioni. Cinque anni più tardi, il New England Journal of Medicine realizzò un’iniziativa simile, pubblicando un dibattito sullo stesso argomento tra E.L. Wynder e C.C. Poco.
Nel 1959, il Surgeon General degli Stati Uniti, il Dr. Leroy E. Burney, in una dichiarazione affermò di avere esaminato i dati disponibili concludendo: “Il peso delle prove indica al momento il fumo come principale fattore eziologico nell’aumentata incidenza di cancro ai polmoni”. Ciò che il Surgeon General aveva menzionato due anni prima come “uno dei fattori causali” era diventato “il principale fattore eziologico”
Il direttore del Journal of the American Medical Association, Dr. Talbot, pubblicò la dichiarazione, aggiungendo in un editoriale “diverse altre autorità … non sono d’accordo con le sue conclusioni”. Il dott. Talbot sosteneva che non vi erano ancora prove sufficienti per risolvere il problema, il suo consiglio ai medici era che dovessero seguire attentamente il tema, restando concentrati sui fatti e fornire consigli ai pazienti sulla base della valutazione dei fatti. Questa raccomandazione attirò una risposta dall’editore del New England Journal of Medicine, che lesse, nella prudente dichiarazione del dottor Talbot, un incoraggiamento alla indecisione che, a suo parere, non poteva più essere giustificata; questo incoraggiamento, ammise, potrebbe essere stato involontario, ma è necessario esprimere il più fermo sostegno alle opinioni del Surgeon General. Dichiarazioni più dettagliate e più forti sarebbero seguite da parte del Royal College of Physicians di Londra nel 1962 e del Comitato consultivo del Surgeon General degli Stati Uniti nel 1964. E anche l’American Medical Association convenne che il fumo di sigaretta era un grave rischio per la salute.

Le prove epidemiologiche contro il fumo, come molti dei risultati dell’epidemiologia delle malattie croniche, si basano su analisi statistiche, per cui suscitò grande interesse il fatto che due celebri statistici, Joseph Berkson e R.A. Fisher, non avessero accettato i risultati che indicavano il fumo come causa del cancro ai polmoni.

Critiche di Joseph Berkson: specificità dell’azione e postulati di Koch
Berkson era un biostatistico in forza alla Mayo Clinic dove, a partire dal 1934, era a capo della Divisione di Biometria e Statistica Medica. Fu colpito dal fatto che, secondo gli studi di Hammond e Horn, tra fumatori e non fumatori non c’era solo una differenza di frequenza di cancro del polmone ma anche di altre malattie. L’elenco era esteso: è vero che nel caso del cancro del polmone il rischio dei fumatori sembrava straordinariamente alto, ma erano state trovate differenze anche per il cancro della vescica, la malattia coronarica, altre malattie cardiovascolari, l’aneurisma dell’aorta, polmonite e influenza, ulcera gastrica e ulcera duodenale. Berkson scrisse: “Abbiamo qui molto più di quanto era stato ipotizzato, e la maggior parte è priva di relazione con ciò che si intendeva studiare e spiegare, cioè: l’aumento del tasso di mortalità per cancro del polmone”. L’argomentazione di Berkson, comunemente accettata nell’epidemiologia delle malattie infettive, riguarda il cosiddetto principio della specificità dell’azione (una causa, una malattia), un principio che funziona bene negli studi fatti a livello molecolare. Se, tuttavia, l’unità di studio è l’intero organismo, il principio di specificità ha un’utilità limitata, sebbene a volte possa suggerire la presenza di associazioni false positive. L’assorbimento anche di una singola sostanza può interessare molti organi o sistemi, per non parlare del fumo di tabacco che è una complessa miscela.
Berkson avanzò un’altra obiezione generale che venne in vari modi riproposta nel dibattito sulle sigarette. “Le indagini definitive”, scrisse, “devono venire dalle scienze biologiche, dalla patologia, dalla farmacologia, dalla chimica e così via … non sapremo davvero se il fumo provoca il cancro, finché non conosciamo almeno qualcosa in modo preciso su come provoca il cancro”.
Diversi critici, che ritenevano necessario fossero prodotte prove a livello biologico, precisarono l’obiezione di Berkson chiedendo, ancora una volta, di individuare la sostanza che costituiva il principio attivo del tabacco e di produrre sperimentalmente il cancro con questa sostanza.
Negli anni Cinquanta, ancor prima che Berkson avesse espresso il suo punto di vista, era stato compiuto un energico sforzo per isolare i cancerogeni chimici dal tabacco. Il modello per questo era stato l’isolamento nel 1932 di un cancerogeno molto attivo, il 3,4-benzipirene dal catrame di carbone. Il benzopirene era presumibilmente il principale agente responsabile del cancro degli spazzacamini. C’erano numerosi esempi nella ricerca biomedica di frazionamento di un prodotto biologico grezzo per isolare il componente attivo. Nel caso del tabacco, con questa strategia, i risultati erano stati minimi. Nel 1958, il British Medical Journal commentò che, a fronte di importanti prove epidemiologiche sul fumo come fattore di rischio per il cancro del polmone, “il fatto che il lavoro sperimentale non abbia fornito prove complete e inconfutabili ha ostacolato la completa accettazione [del ruolo causale del fumo]”.
Un rappresentante dell’industria del tabacco descrisse questa obiezione con più forza, affermando che la ricerca di agenti cancerogeni chimici nel tabacco “è continuata così a lungo da parte di così tanti investigatori capaci e con risultati così scarsi che molti scienziati non credono più che sia probabile che il fumo di tabacco eserciti effetti significativi come cancerogeno diretto o specifico per i tessuti umani”. Nel 1962, Lancet riassumeva i risultati dell’analisi chimica dei prodotti a base di tabacco notando: “nessun carcinogeno è stato” trovato in concentrazione adeguata nel fumo di tabacco; nessun vero cancro polmonare è stato prodotto sperimentalmente”. Questi requisiti possono essere riconosciuti come una riformulazione di parte dei postulati di Koch, in modo che possano essere applicati alle malattie croniche.

Critiche di R.A. Fisher
Il lavoro di Fisher sul fumo e il cancro dei polmoni, che era precedente a quello di Berkson e differente nella motivazione, fu pubblicato nel 1959.

Stranezze. Studiando i dati sul fumo, Fisher aveva trovato che nel lavoro di Doll e Hill la proporzione di fumatori che avevano dichiarato di aver inspirato il fumo era del 65% tra i casi, ma, sorprendentemente, era il 67% tra i controlli. L’editoriale del British Medical Journal nel 1950 aveva commentato questo risultato inaspettato e Cornfield e i suoi colleghi nel 1959: “Bisogna ammettere che non esiste una chiara spiegazione della contraddizione”. Fisher però volle approfondire la questione al punto da richiedere a Doll e Hill l’originale dei dati che pubblicò in un pamphlet. Fisher classifica i fumatori, sia tra i casi che tra i controlli, in base al fatto che inspirassero o meno il fumo, e presenta i dati divisi in cinque sottogruppi, in base alla quantità di fumo assunta al giorno. In quattro dei cinque gruppi, la percentuale di soggetti che inspiravano il fumo era superiore tra i controlli rispetto ai casi. Questa apparente incongruenza svolse un ruolo importante nel condurre Fisher a dubitare che il tabacco fosse cancerogeno. Successivamente è emerso che nei fumatori leggeri il deposito di particolato sulla parte sensibile dei bronchi è scarso, a meno che essi inspirino il fumo. I forti fumatori, d’altra parte, tendono ad inalare profondamente, per cui il fumo si sposta rapidamente verso le parti più profonde dei polmoni e si deposita sulle pareti dei bronchi meno rispetto a quando ispirano. Il problema meritava la discussione suscitata da Fisher, e forse anche di più.

Definizione di esposto. Inoltre c’era un problema di logica della ricerca: Fisher notò che l’ipotesi originale che riguardava l’effetto del tabacco in toto, era stata trasformata nell’ipotesi dell’effetto del tabacco da sigaretta. Infatti, nel progetto di Doll e Hill, era considerato esposto chi fumava la pipa oppure le sigarette (un’oncia di tabacco da pipa equivalente all’incirca a 28 sigarette), ma strada facendo avevano centrato lo studio sul fumo di sigaretta. Fisher guardò a questa modifica in corso di opera, come un cambiamento dell’ipotesi di partenza, per interpretare lo stesso studio che era stato progettato appositamente per testare proprio “quella” ipotesi, contravvenendo una regola di base del test dell’ipotesi in statistica. Il problema è se l’ipotesi (il fumo provoca il cancro) sia vera o no. Siccome sempre più ricercatori non sono riusciti a negarlo, è diventata accettata la visione di una differenza tra uso di tabacco da pipa e tabacco da sigaretta.

Rapporto Maschi : Femmine. Nel 1957, Fisher sostenne che tra i casi di cancro c’erano poche donne, se confrontate con il rapporto maschi-femmine tra i fumatori. L’osservazione era spiegabile con il lungo periodo di latenza tra esposizione e malattia che fa in modo che il rapporto maschi : femmine dei casi incidenti oggi, dipende dal rapporto maschi : femmine esposti al fumo molti anni prima. Ci sono molti esempi di un lungo intervallo tra un’esposizione iniziale e la malattia finale, compresi diversi casi classici nell’epidemiologia delle malattie infettive. L’associazione tra fumo e cancro del polmone non è unica né nella lunghezza del periodo di latenza né nelle difficoltà risultanti nello studio dell’eziologia.

Proposte di Fisher: tener conto della genetica
Fisher, che era un biostatistico e un genetista, ammise inizialmente che erano state trovate buone prove contro il fumo, ma egli lamentava che l’atteggiamento della ricerca sul cancro ai polmoni negli anni cinquanta era stato contrassegnato da “eccessiva fiducia nel fatto che la soluzione fosse già stata trovata”, e chiese di continuarla, suggerendo di non limitarsi a ripetere gli studi usati più volte. Egli, che credeva fermamente nella causalità genetica del cancro, ricordando l’associazione tra il gruppo sanguigno A e il cancro dello stomaco, propose due nuovi progetti di ricerca basati sulla teoria, comunemente nota, come teoria costituzionale, secondo cui “il fumo di sigaretta e il cancro ai polmoni … potrebbero essere entrambi influenzati da una causa comune … il genotipo individuale”. Era quasi il solo tra i maggiori critici nel portare avanti la proposta di raccogliere ulteriori dati empirici.
Una seconda proposta di Fisher prevedeva la ricerca sui gemelli, progettata per verificare se esistesse una maggiore concordanza nell’abitudine al fumo tra i membri delle coppie monozigoti rispetto a quella tra i membri delle coppie dizigoti. Alcune prove che i monozigoti erano più concordanti furono ottenute, ma la numerosità era troppo piccola per fornire informazioni utili sulla morbilità o mortalità dei gemelli. Fisher morì, nel 1962, prima che la controversia sugli effetti di il fumo si fosse placata, anzi, prima che la polemica avesse raggiunto il culmine nell’opinione pubblica.
L’ipotesi costituzionale non morì con lui. Fu fortemente sostenuta da Browlnee nel 1965 nell’ambito di una recensione (sfavorevole) del Rapporto del Surgeon General sul fumo e la salute. Scrivendo dell’ipotesi, alcuni anni dopo che era stataavanzata, Mantel affermò che sarebbe stato difficile rifiutarla in toto. E ancora oggi, una forma modificata dell’ipotesi in cui l’interazione tra genotipo e tabacco è trattata come un fattore di rischio, rimane credibile.
Tuttavia, l’ipotesi costituzionale, nella sua forma originale, era incompatibile con la velocità con cui il cancro ai polmoni era aumentato durante il secolo 20°. Non a caso Burch, che aveva continuato a sostenere la teoria costituzionale, era tra coloro che negavano che ci fosse stato un sostanziale aumento del cancro al polmone nel secolo 20°.

La letteratura sull’epidemiologia applicata alle Malattie Croniche
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Gli studi di coorte e caso-controllo sul fumo, con le polemiche che generarono, erano di primario interesse per chi era interessato al cancro del polmone. Ma essi hanno anche avuto un’influenza ancora più ampia perché hanno indirizzato l’attenzione sui metodi di conduzione degli studi epidemiologici sull’eziologia delle malattie croniche. Nel giro di pochi anni verso la fine degli anni Cinquanta, Lilienfeld, Sartwell, Yerushalmy e Palmer scrissero sulla metodologia per la nuova disciplina. Lilienfeld, Sartwell e Palmer avevano contribuito alla ricerca sull’epidemiologia delle malattie infettive e usarono i postulati di Koch, modificati dalla loro esperienza con le malattie croniche, per fornire un quadro di riferimento per i nuovi metodi. Come hanno detto Yerushalmy e Palmer nel 1959: “Lo scopo di questo lavoro è mettere in parallelo lo studio dei fattori eziologici delle malattie croniche e quello dell’eziologia delle malattie batteriche”.
La discussione dei metodi appropriati per lo studio dell’epidemiologia delle malattie croniche, permise di migliorare questi metodi. Tre pubblicazioni negli anni cinquanta furono particolarmente importanti, in relazione al cancro del polmone e all’epidemiologia delle malattie croniche, in generale.

La stima del rischio relativo, nello studio caso controllo
Nel 1951, Cornfield mostrò che le stime degli studi caso-controllo erano molto più informative di quanto si fosse supposto in precedenza. Nel caso del fumo e il cancro ai polmoni, per esempio, le stime sono le proporzioni di fumatori tra i casi e quelle tra i controlli. Queste proporzioni possono facilmente fornire una stima che è molto più illuminante, l’odds ratio (un termine non utilizzato da Cornfield) che approssima il rischio relativo, in una ben definita condizione (che in seguito sarà chiamata “assunzione di malattia rara”). In altri termini: il rapporto tra le proporzioni degli esposti fornisce una stima del rischio di cancro ai polmoni tra i fumatori relativo al rischio tra i non fumatori, che è la misura di interesse.
Più alto è il rischio relativo, meno è probabile che un effetto del fumo possa essere solo apparente, e spiegabile come un artefatto causato da un fattore di confondimento. Questo fu uno degli argomenti usati da Cornfield per criticare Berkson il quale si era concentrato sulle differenze tra i rischi, piuttosto che sui rapporti tra i rischi, nel valutare l’effetto del fumo sulla frequenza di cancro ai polmoni. Alla fine, come fu sostenuto anche da altri, il cancro del polmone dipendeva così fortemente dal fumo che era possibile identificare la connessione causale senza dover capire il meccanismo di carcinogenesi.[1]

Il confondimento
Una seconda pubblicazione, del 1959, era un’esposizione approfondita delle prove riguardanti il fumo come causa del cancro ai polmoni, e comprendeva una breve appendice, probabilmente di Cornfield, in cui era presentato un esempio di trattamento quantitativo del confondimento[2] che concludeva significativamente che la dimostrazione “pone dei limiti ai suggerimenti e alle speculazioni non sostenuti da prove, con cui si cerca di respingere i risultati di una ricerca basata sui dati”.

Metodi statistici per controllare il confondimento
Un terzo articolo che ebbe molta influenza per la ricerca epidemiologica, fu scritto da Mantel e Haenszel, che nel 1958 fornirono una descrizione sistematica della progettazione e dell’analisi degli studi caso-controllo, e presentarono un metodo per analizzare i dati dei confronti effettuati tra diversi strati di casi e controlli (ad esempio strati di diverse classi di età oppure diverse condizioni sociali e così via), per ottenere la stima di una misura di associazione complessiva.

I metodi che scaturirono dal lavoro sul fumo divennero presto comuni nell’epidemiologia delle malattie croniche che, come ha scritto Vandenbroucke “aveva le sue radici nel dibattito su fumo e cancro del polmone”. A metà degli anni Cinquanta, la più grande ricerca epidemiologica mai pubblicata sull’eziologia di una malattia cronica, era la ricerca sul fumo che ha delineato come dovrebbero essere condotti e analizzati gli studi epidemiologici sulle malattie croniche.

Effetto degli Studi Epidemiologici sul Cancro del Polmone
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La spinta innovativa dei metodi epidemiologici realizzatasi attorno alla ricerca su fumo e cancro del polmoni andò scemando negli anni settanta; l’argomento, a livello epidemiologico, si stava esaurendo. Lancet in un editoriale affermava: “Negli anni ’50 la professione medica era ambigua nel suo atteggiamento verso il fumo: nel 1970 la professione è più o meno unita nell’opinione che il fumo di sigarette mette in pericolo la salute”.
Nel 1970, gli scienziati non erano pronti a fare ciò che Berkson e altri avevano proposto come ulteriore test dell’ipotesi del fumo: cioè, identificare il meccanismo che porta al cancro del polmone. Un editoriale su Nature nel 1984 affermava: “Sarà tempo di parlare delle cause del cancro ai polmoni, quando i meccanismi saranno stati chiariti … Richiederanno più biologia molecolare e biologia cellulare … una migliore comprensione del processo di differenziazione e fisiologia dell’omeostasi …. Le persone che fumano sigarette hanno più probabilità di altri di sviluppare il cancro. L’abitudine del fumo è quindi … una causa di cancro … [ma] non la causa primaria … quella deve essere ricercata in un gruppo di sostanze chimiche non ancora dimostrate in modo conclusivo”.
La causa primaria, la causa primaria del cancro del polmone è sfuggente e la sua ricerca avrebbe potuto non avere fine. A un certo punto, c’è anche il problema di applicare le conoscenze ottenute. Le prove epidemiologiche sul fumo hanno giustificato una campagna di prevenzione che ha avuto successo nonostante le forze contrarie. I risultati hanno gettato le basi di un metodo per evitare la forma più comune di cancro ai polmoni e, aggiungendo il tabacco alla lista dei fattori di rischio prevenibili, hanno esteso l’oncologia preventiva ben oltre il ruolo che essa aveva acquisito nella riduzione della carcinogenesi occupazionale.
Due cose hanno determinato il modo in cui l’epidemiologia delle malattie croniche è emersa come disciplina: il ​​drammatico aumento del cancro al polmone e l’opposizione alle prove del fumo di sigaretta come una delle principali cause della malattia. L’aumento del cancro ai polmoni, inaspettato e, a breve termine, inspiegabile, ha creato la necessità di una ricerca eziologica. In risposta a questo bisogno, lo studio caso-controllo è stato portato a un nuovo livello di qualità da Doll e Hill. Il metodo si adatta bene agli studi eziologici, quando il fattore di rischio può essere misurato dalla storia del soggetto, ed è particolarmente efficace, rispetto ad altri metodi, quando la malattia ha un lungo periodo di latenza, il che è tipico delle malattie croniche.
I risultati degli studi caso-controllo erano troppo importanti, troppo sgradevoli e troppo sorprendenti per essere accettati senza ampie critiche, e la reazione a questa critica ha avuto un marcato effetto sull’epidemiologia. Una risposta è stata la progettazione di un’indagine di coorte, che ha dimostrato che un fattore di rischio comportamentale può essere studiato con successo in modo prospettico. La seconda risposta è stata quella di stimolare l’interesse a migliorare i metodi statistici con cui gli epidemiologi analizzano i dati sull’eziologia delle malattie croniche. Lavorare su un problema importante, perseguito per molti anni di fronte a critiche informate, ha portato progressi metodologici. Alcuni di questi progressi provenivano dai ricercatori che erano stati pionieri delle indagini sul cancro del polmone, altri da quelli che erano stimolati ad intervenire nella discussione.
Portare le malattie croniche nell’ambito dell’epidemiologia ha stimolato due cambiamenti in quella disciplina. Il primo è l’ampliamento della ricerca di agenti eziologici in malattie che in precedenza erano state pensate, in gran parte, come dovute a cambiamenti degenerativi. Nel caso delle malattie infettive, il principale, sebbene non l’unico, agente è l’organismo causale, e la ricerca si concentra sulle caratteristiche e delle modalità di trasmissione di questo agente. Nelle malattie croniche l’agente eziologico può essere un’infezione, ma la malattia può anche essere dovuta a fattori come la dieta, le caratteristiche comportamentali, l’occupazione, la vita familiare, l’inquinamento ambientale, difetti ereditari, reazioni a trattamenti o diversi fattori combinati.
Un secondo cambiamento, che è una conseguenza del primo, è la necessità di porre l’accento su alcune tecniche che si sono sviluppate proprio nella ricerca epidemiologica sulle malattie croniche. Questo sviluppo ha portato a una letteratura specializzata. Due pubblicazioni di Doll e Hill, una di Hammond e Horn e una di Wynder e Graham hanno avuto un ruolo importante nei primi anni cinquanta suscitando interesse pubblico e professionale nel rapporto tra fumo e cancro ai polmoni. In tutti e quattro i casi gli articoli sono stati pubblicati su riviste mediche generali. Questi stessi articoli, tuttavia, furono influenti nel promuovere lo sviluppo dell’epidemiologia delle malattie croniche. Nel 1965 l’American Journal of Hygiene, che era stato per lungo tempo un’importante rivista per la pubblicazione di articoli sull’epidemiologia delle malattie infettive, modificò il suo nome in American Journal of Epidemiology. Mantenne il suo interesse per le malattie infettive ma divenne rapidamente un importante mezzo per la pubblicazione di articoli
sull’epidemiologia delle malattie croniche. Questo spostamento di focus si è verificato anche in altri paesi e nel 1972 l’International Journal of Epidemiology iniziò le sue pubblicazioni con obiettivi simili.

Riferimenti essenziali
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[1] Le conclusioni di Cornfield stupirono i ricercatori, e le sue tecniche resero possibile molta della moderna epidemiologia. Tuttavia, il suo lavoro provocò la reazione dell’influente e irascibile Sir Ronald Fisher (Fisher era un fumatore, un consulente retribuito dell’industria del tabacco, e un fervente anti-Bayesiano).

[2] Cornfield difese con successo il suo metodo: se il rischio relativo (r) tra fumo e cancro del polmone fosse solo un artefatto e il vero agente causale fosse altro (ad esempio il genotipo B) correlato sia con il cancro del polmone che con il fumo, allora la prevalenza di genotipo B, tra i fumatori, rispetto alla prevalenza dello stesso genotipo tra i non fumatori, dovrebbe essere maggiore di r. Ora, siccome i fumatori hanno 9 volte il rischio dei non fumatori di sviluppare il cancro ai polmoni. Se questo risultato fosse dovuto solo al fatto che i fumatori hanno quel particolare genotipo B, il rapporto di genotipo B tra i fumatori dovrebbe essere almeno 9 volte maggiore di quello tra i non fumatori.